Aurelio Principato ha insegnato Lingua e letteratura francese e Storia della lingua francese presso le Università di Pisa, Pavia, Palermo, Milano IULM, Parigi 3, e attualmente all’Università degli Studi Roma Tre. É stato residente alla Maison de l’Italie dall’autunno 1974 all’inizio dell’estate del 1976, un periodo che ricorda tra i più piacevoli della sua vita.
Una curiosa casa mediterranea nella Parigi degli anni ’70
Era la metà degli anni ’70 e sbarcavo alla Maison de l’Italie pieno di speranze. Sapevo già che nessun luogo poteva essere adatto come Parigi, e all’interno di Parigi la Cité Universitaire, e all’interno della Cité Universitaire la “Casa d’Italia”, per soddisfare l’insopprimibile bisogno di “cambiare aria” che mi veniva dal cupo periodo del servizio militare da poco concluso, dall’infelicità affettiva dei due anni precedenti seguiti alla fine di una relazione tormentata, dal desiderio di evadere dall’ambiente pisano che mi appariva ormai irrimediabilmente chiuso.
La Maison, l’avevo già frequentata in occasione di soggiorni più brevi, perché altri amici vi risiedevano. Le mie aspettative si rivelarono fondate: in primo luogo perché vi incontrai mia moglie, che mi ha aiutato a scrivere il presente ricordo, e poi per i contatti umani, in gran parte multinazionali, che vi ho realizzato e per la generale gaiezza che vi ho vissuto. Molte delle esperienze di quei due anni si sono impresse in modo indelebile nella mia memoria e molte amicizie sono ancora oggi rimaste vive.
Al carattere positivo dell’esperienza contribuiva, certo, il fatto che si continuasse a cavalcare l’onda sessantottina. Questo clima particolare, che metteva in tutti noi slancio ed euforia, anche se ormai cominciavano a delinearsi fattori che andavano in senso opposto, dominò il mio impatto iniziale con l’ambiente. Poiché alla fede viva nella necessità di lottare (c’era ancora la guerra in Vietnam!) si accompagnavano le conseguenze di un impegno politico sentito come dovuto. E proprio la presenza di giovani di ogni parte del mondo nella Cité Universitaire favoriva una conseguenza che oggi risulterebbe incomprensibile: nella mentalità di noi che ci vivevamo, essa diventava come il centro della lotta anti-imperialista mondiale!
Non nominerò per discrezione nessun altro in questa mia rievocazione, ma di uno è impossibile tacere: come fare a meno di ricordare con simpatia il direttore della Maison de l’Italie di allora, Aldo Vitale o, piuttosto, “Aldo”. Un personaggio che si inquadrava perfettamente in tale atmosfera. Si poneva nei nostri confronti come un compagno, gli davamo del tu. Amministrava la Casa d’Italia con il piglio dell’industriale “buono”, quello che si metteva dalla parte degli studenti-“dannati della terra”: padrone-padre, e non il contrario. Anche se non poteva evitare di vedersi attaccare “da sinistra” quando si trovava a operare tagli di spesa o aumenti del prezzo delle camere.
In altri casi, essere pro o contro la gestione di Aldo ci poneva di fronte a delicati problemi ideologici di coscienza. Come in quella circostanza, per molti versi esemplare, che si verificò quasi all’inizio del mio soggiorno.
C’era una residente africana non più giovanissima e senza mezzi, che molto spesso svolgeva il servizio di portineria. Compito che assumevano a turno i residenti che avevano bisogno di una paga per avere di che vivere. Ora, Aldo constatò alcuni comportamenti di lei che rendevano necessario allontanarla da questo servizio: venne immediatamente accusato, da lei e dai suoi amici, di discriminazione antiaraba. Due partiti si formarono, l’uno a favore della sanzione l’altro in difesa della donna. Questa, per sostenere i suoi argomenti con i mezzi che sembravano allora i più ovvi, iniziò uno sciopero della fame. Solo che non lo conduceva come ci si aspetterebbe, cioè in pubblico. Si chiuse nella sua camera, dove riceveva solo le persone che le erano solidali, e il sospetto nacque che lì qualche bocconcino ogni tanto se lo mangiasse.
Aldo convocò un’assemblea dei residenti che nominò una commissione di cinque, tra cui il sottoscritto, incaricata di risolvere la questione. Eravamo naturalmente tutti di nazionalità diverse, che andavano dalla svizzera all’uruguayana. Cominciammo a riunirci freneticamente, anche fino alle cinque del mattino, e a discutere animatamente sulle mosse più opportune che potessero convincere la donna ad arrendersi all’evidenza, senza ricorrere ad azioni ad altro livello. Già ci bastavano le pesanti accuse di razzismo che ci piovevano addosso dagli amici e sostenitori dell’accusata. E discutendo, discutendo, mentre sorseggiavamo il mate procurato dall’amico uruguayano, si maturavano parecchie riflessioni su quello che oggi si chiama “confronto interculturale”.
Molti, nella metà di residenti non italiani a cui per statuto era riservata la Maison de l’Italie, risultavano essere stati accolti da Aldo come vittime dell’imperialismo mondiale o, addirittura, come rifugiati politici. C’erano esuli dalla Grecia, dove allora governavano i colonnelli, così come angolani ostili al dominio colonialista portoghese. E diversi iraniani che promuovevano agitazioni contro il regime dello Scià. Khomeini preparava allora da Parigi la sua rivoluzione, ma quei ragazzi pensavano di combattere per affrancare la loro nazione dal giogo americano, e quando rientrarono in patria al seguito dell’Ayatollah dovettero rendersi amaramente conto della realtà antiprogressista della rivoluzione; uno di essi finì addirittura fucilato. Ricordo ancora quel brasiliano che era riuscito a fuggire dal suo paese (anch’esso allora sotto una dittatura di destra) nascosto dentro un frigorifero. Quest’ultimo era per noi un eroe, una specie di emulo del Che Guevara. Da parte mia, associo al suo ricordo meno la rapidità fulminea del condottiero che l’estrema lentezza con cui si muoveva (quando c’era lui la mattina a fare servizio alla Cafétéria si formavano certe code che ci incoraggiavano ad andare a prendere la colazione nel bar vicino) e la pari lentezza con cui parlava. Tanto che i suoi interventi in assemblea, che riguardavano quasi sempre la difesa della democrazia, erano lunghi in ragione diretta dell’attenzione con la quale egli veniva ascoltato nel silenzio più assoluto, quasi come fosse un oracolo. Diverse volte, essendomi trovato a presiedere, mi capitò di passare la parola a un altro credendo per errore che avesse concluso, tanto estese erano le pause che il nostro metteva tra una frase e l’altra.
Molte erano le assemblee che si svolgevano, e gli argomenti all’ordine del giorno, per quanto di poco conto potessero essere, venivano automaticamente investiti di significati ideologici. Spesso riguardavano disaccordi tra persone o gruppi di persone su questioni attinenti, per esempio, all’uso dei locali, come nelle assemblee di condominio, ma quando la discussione si inaspriva poteva anche capitare che il residente angolano accusasse quello ciociaro di essere un’agente della CIA o viceversa!
Del resto, anche nel mutare natura delle nostre adunate nella grande sala del pianterreno si sarebbe potuto osservare il cambiamento dei tempi. Dal primo al secondo anno del mio soggiorno, si attenuò l’atmosfera di battaglia radicale per lasciare il posto a più composti eventi culturali o interventi di personalità celebri. Ricordo in particolare quella volta che si colse l’occasione per ottenere da Bruno Trentin, allora segretario della F.I.O.M., di passaggio a Parigi per un incontro ad alto livello, che venisse a parlare la sera alla Maison. Rimasi impressionato dalla superiorità intellettuale dell’uomo, dal modo in cui si sbarazzò agevolmente delle ingenue domande ideologizzate che gli rivolgemmo, e anche della grande qualità del suo francese (non conoscevo le ragioni biografiche che la motivavano).
A tale proposito, in queste situazioni pubbliche dove c’erano tanti italiani presenti ma ci si esprimeva necessariamente in francese, mi colpiva come nei miei coetanei l’uso di questa lingua fosse comunque divenuto naturale e vicino al parlato reale, per quanto il lessico tendesse a ruotare attorno a pochi termini relativi alle abitudini quotidiane della Cité Internationale e la pronuncia fosse calcata sui nostri diversi accenti regionali. E confrontavo tale spontaneità con il francese stentato con il quale si presentavano all’esame i miei studenti pisani.
Ma naturalmente il tempo alla Maison de l’Italie non passava solo tra infognarci in uno psicodramma e organizzare una “manifesctassiòn”. Eravamo giovani, e facevamo quello che i giovani fanno, festicciole (una volta ad esempio l’uruguayano utilizzò la cafétéria per cucinarci un’enorme tortilla de patatas), flirts, uscite in gruppo per qualche cinema o per scovare qualche ristorantino, con tendenza prevalente all’esotico, anche per via dei prezzi. Approfittando comunque delle infinite risorse che offre una città come Parigi a chi vuole godersi la vita, anche avendo poco da spendere. Per il resto, ognuno seguiva le proprie preferenze o le proprie abitudini di svago. Nei vasti spazi verdi della Cité Internationale si poteva correre, fare vari sport, ma io mi limitavo a qualche passeggiata. Il tempo che potevo dedicare alla vita sociale all’interno della Maison era quello della sera o della domenica. Il resto della settimana, a parte il lunedì mattina quando seguivo il seminario di Tzvetan Todorov all’École Normale Supérieure, lo trascorrevo alla Bibliothèque Nationale, allora nella sua antica e bella sede di rue de Richelieu. Ero già assistente universitario e passavo a Parigi un biennio di congedo per ricerca. Gli altri residenti avevano ciascuno la propria attività, alcuni lavoravano, e la varietà delle nostre occupazioni si aggiungeva a quella delle diverse origini geografiche nell’arricchire enormemente la nostra esperienza. Il tutto, grazie alla stessa concentrazione della Cité, avveniva in modo probabilmente più intenso di quanto vivano oggi un’esperienza simile gli studenti in Erasmus.
Abbastanza tardi scoprimmo la possibilità di raggiungere più comodamente la biblioteca, e senza spendere cifre eccessive, con il bus 21, che fa capolinea sullo stesso boulevard Jourdan dove si affaccia l’entrata della Maison de l’Italie, con il suo frontone e la loggia pseudorinascimentali, le tendine tricolori e le maniglie a forma di “I”. In precedenza, utilizzavamo solo quella che ancora si chiamava “ligne de Sceaux”, e si fermava al Luxembourg, non essendo stata ancora prolungata verso nord per diventare la linea B dell’attuale R.E.R. Scendevamo a Denfert-Rochereau per proseguire con altre linee di métro. Tornavamo con gli stessi mezzi pubblici che avevamo utilizzato la mattina. Ricordo la discesa dal treno alla fermata Cité Universitaire assieme a tanti altri giovani come noi, che mi rendevano felicemente sensibile il ritorno in una comunità studentesca dopo l’isolamento della giornata.
In quel centinaio di metri che ci separava dalla nostra residenza, avevamo la scelta se prendere un viottolo piuttosto che un altro. E uno dei miei abituali compagni di biblioteca, quando ne tornavamo assieme, diceva spiritosamente che era l’unico momento della giornata nel quale potevamo esercitare il libero arbitrio… Infatti, una volta raggiunta la nostra camera, era praticamente ora di prepararsi alla cena. Ma esagerava. In primo luogo, potevamo decidere di non andare al mediocre Resto Sud o negli altri della Cité, e uscire di nuovo per comprarci qualcosa da prepararci a casa, nella cucina comune disponibile a ogni piano. Poi, potevamo scegliere con chi avremmo passato la serata e dove.
Dopo pochi mesi, avevo avuto la fortuna di subentrare a una residente che rientrava in Italia in una delle camere al terzo piano, l’ultimo, più spaziose e dotate di balcone o terrazzo. Le camere della Maison, che poi avrebbero subito un’importante ristrutturazione, ci sembravano essere state progettate e realizzate in modo estremamente maldestro. La porta d’ingresso si apriva… sul lavabo, che era anche l’unico sanitario presente. Gabinetti e docce erano in comune nel corridoio. Nello spazio rimanente della camera, dovevano trovare posto il letto, un tavolo, una piccola libreria, e un rozzo armadio che cercavo di spostare e collocare in vari modi, coprendolo di manifesti per attenuarne la bruttezza. Invidiavamo molto la funzionalità assai superiore di altre residenze, gli spazi della Maison de la Suisse disegnati da Le Corbusier, così come, insieme a Costa, quelli della Maison du Brésil. Ammiravamo la modernità della Maison de l’Iran o il simpatico raccoglimento della Maison de la Suède.
Sapevamo però anche che nessun ambiente era così simpatico, umanamente aperto, chiassoso come il nostro. E anche se andavamo a trovare volentieri gli amici che si erano spostati o vivevano fin dall’inizio in altre residenze, essi ci sembravano anche degli esseri che avevano voluto sottrarsi volontariamente, forse però anche tristemente, all’effervescente atmosfera della nostra Maison, dove non era possibile difendere l’intimità, ma dove anche non si correva il rischio di soffrire di solitudine!
Dopo quel bellissimo periodo tornai ad abitare alla Maison de l’Italie dodici anni più tardi e solo per un mese. Fui ospitato in quello che una volta era il grenier, il solaio, ormai trasformato in monolocali molto comodi, per ospiti meno “proletari”, molto meglio riscaldati delle camere in cui avevo vissuto in quella metà degli anni ’70. Eppure, tutto era più freddo di allora. Né l’aria mediterranea né il vento di anti-imperialismo sembravano più spirare ai bordi della Ville-Lumière.