Intervista con Luisa
Luisa è una studentessa di storia contemporanea presso l’Università di Pisa, viene da Marsala e sta scrivendo una tesi sulle microinterazioni all’interno di piccole comunità abitative.
L’ambiente internazionale che hai trovato qua ti ha favorita nelle relazioni sociali?
Assolutamente sì. Tutto sta avvenendo piano piano e allo stesso tempo in modo velocissimo, io sono qui da un mese, ma sono stata molto fortunata perché è un periodo in cui ci sono davvero molti stranieri qui alla Maison de l’Italie e sì, questo mi sta aiutando tantissimo, soprattutto per il francese, mi sento stimolata a parlarlo. La cosa che mi piace di più di questa esperienza è che posso entrate in contatto con persone che vengono da tutte le parti del mondo, se ci penso un attimo ho condiviso il pranzo di ieri con una canadese, una marocchina, una belga, la sera sono uscita con una ragazza armena ed è straordinario perché qui hai il mondo a portata di mano. Ho l’opportunità di conoscere tantissime storie diverse, può essere una cosa banale, ma è quello che vivo ogni giorno stando qui. Hind ieri parlava di alcune dinamiche sociali e problemi che esistono in Marocco, le contestazioni al sovrano, Keiko invece, la ragazza giapponese, parla dell’imperatore… è importante poter superare tanti stereotipi, e poter parlare con queste persone e chiedergli “dimmi, cos’è il tuo paese? Non farmelo raccontare più da terzi, o da osservatori lontani”. Intellettualmente, mi accorgo che il cervello corre velocissimo.
La Cité Universitaire è nata negli anni venti per creare un posto dove le future élites di tutto il mondo si incontrassero e superassero i pregiudizi di cui tu parli, nella speranza di evitare un nuovo conflitto e creare un orizzonte di pace. Pensi che ancora sia ancora questo il significato più profondo della Cité, o ne vedi altri?
Ne parlavo l’altro giorno con un amico che mi chiedeva come ti trovi, com’è il posto. Io credo che questa rimanga la vocazione principale, con un senso leggermente diverso da quello con cui è stata concepita negli anni venti. Il mondo è cambiato, molto più interconnesso, ma uno spazio di condivisione come la Cité è ancora assolutamente necessario. Qui internazionalizzazione, globalizzazione e interconnessione esistono veramente, anche a livello spirituale. Poi un’altra cosa: sedersi allo stesso tavolo gomito a gomito, è un esercizio antropologico. A me i primi giorni piaceva da morire aprire la porta della stanza e nel corridoio sentire Andrea parlare in svedese, Tajana che urlava in canadese, Antonio con il pallone che parlava italiano, un intreccio di lingue diverse in un solo corridoio! Così come fare una passeggiata dentro il parco, mi dà la possibilità di incontrare persone con mille facce, mi ricorda costantemente che siamo insieme nello stesso posto e che dobbiamo collaborare per tenercelo, per stare bene insieme. La possibilità di vivere e mangiare assieme agli altri ti cambia il modo di pensare. Perché a livello astratto siamo tutti bravi a parlare, ma vivere è un’altra cosa. Riesci a cogliere le sfumature, e non solo quelle positive.
A questo tuo amico, che immagino non conoscesse la Cité Universitaire, come gliel’hai descritta?
Inizialmente gliel’ho descritta in maniera visiva, estetica. Questo è un posto bello, la prima cosa che ho detto è stata: “Guarda è un posto bellissimo, c’è un parco, ci sono 38 fondazioni, ogni fondazione ha un’architettura particolare”. Poi gli ho raccontato della vocazione, la storia del corridoio…